martedì 11 settembre 2007

human

Il giorno del ritorno, già ricco di suo di emozioni contrastanti e di nostalgia non si sa bene di dove e di cosa, è stato ancora più particolare.
Il volo di ritorno è stato cancellato, non c'era proprio l'aereo. Dopo una attesa estenuante in aeroporto, hanno deciso di metterci in un albergo. Non parlerò del caos e dell'inefficienza indiana nel gestire la situazione, a cui ormai mi sono abituata e in cui non ci vedo niente di male, d'altra parte siamo in India.

Quello che mi ha colpito è invece un'altra cosa, tanto da pensare che la cancellazione del volo fosse un segno. Sono razionalista di natura e in un certo senso stare tanto tempo in India mi ha reso ancora più razionalista, quindi se il volo è cancellato, è perché c'era un problema tecnico e basta. Causa ed effetto. Nessun fine. Ma se, solo per giocare un attimo al gioco dei segni e dei significati, ci volessi trovare un senso a tutti i costi, potrei dire che mi hanno fatto stare un giorno in più perché c'era qualcosa che non avevo ancora visto e che dovevo vedere prima di partire.

La povertà, la degradazione, la sofferenza, le avevo ampiamente viste. Ma il lusso ancora no. L'albergo dove ci hanno messo era un hotel 5 stelle di super-lusso. Vicinissimo all'aeroporto, ovvero anche vicinissimo allo slum (ci sono baracche attaccate alla pista dell'aeroporto, ho letto che una volta c'erano finite anche sopra, e poi sono state rase al suolo...). In effetti per arrivarci si passa in mezzo a strade sui cui lati ci sono decine di baracche accatastate l'una sull'altra. L'albergo è circondato da un muro di cinta e si entra da un cancello difeso da una decina di persone armate.
Dentro, il lusso sfrenato. Quello di quei "lavish riches" di cui leggevamo all'istituto dei ciechi. Una hall enorme, spaventosamente enorme, con fontane rigogliose d'acqua, con pianoforti a coda e scalinate da principessa, su cui si affacciano le porte delle camere, dieci piani di camere di lusso.

Fuori, i soliti 35 gradi con umidità al 100%, dentro, aria condizionata così forte che non mi bastano tutti i vestiti che mi sono portata per coprirmi dal freddo.
Fuori, bambini che si rotolano fra montagne di rifiuti, dentro uomini d'affari che spostano milioni di dollari o euro dal loro portatile. Dentro l'albergo poi c'è un buffet enorme, con ogni tipo di piatto, indiano, occidentale, cinese, pesce, carne, frutta, verdura, gamberoni, minestrone, insalata, curry, dolci. Aperto 24 ore al giorno. E fuori la gente mangia dai rifiuti.

Vado all'ultimo piano per vedere meglio dall'alto. E' difficile vedere sotto, ci sono parapetti ovunque, quasi non ti volessero far vedere fuori. Ma trovo una finestrella di lato e riesco a guardare sotto. Si vede dall'alto la piscina all'aperto nel giardino dell'albergo: gente (qui in piscina soprattutto occidentali) che prende il sole, che fa i tuffi. Al di là del muro, proprio appoggiate al muro stesso, baracche di lamiera e gente sporca, sporchissima, senza acqua corrente, senza acqua potabile, senza bagni e latrine. Ma come fanno? Sia chiaro: intendo come fanno quelli che fanno i tuffi a fare i tuffi.
In linea d'aria solo due, tre metri. Ma gli uni non vedono gli altri: il muro di cinta e le palme molto verdi e tropicali separano i due mondi.

Mi viene da pensare: è "immorale". Questa parola mi perseguita tutto il giorno. "Immorale". Ma poi lentamente mi viene in mente che la morale nostra non è la loro, che la morale non è un qualcosa di universale. Forse non c'è nemmeno il concetto di morale, in India. Immorale per me, che sono cresciuta nel cristianesimo e che, pur non facendone più parte, in qualche modo mi sono nutrita di giusto e sbagliato, morale e immorale, fare del bene al prossimo e fare del male. E allora dicendomi "immorale" sto semplicemente giudicando con il mio metro, con la mia cultura. Però un'altra parola (un altro giudizio) me la concedo, giustificandomi con il fatto che me l'hanno suggerita loro, gli indiani. E' quel "inhuman" che già mi aveva fatto pensare, che mi veniva in mente di notte lungo i marciapiedi, di giorno di fronte a gente senza braccia. E' disumano questo divario. Sì, è disumano.

 
E' con questa parola in mente, e nel cuore, che lascio l'India, quando dall'aeroporto ci trovano un altro aereo, nel cuore della notte.

Ma ogni parola contiene, negandolo, anche il suo opposto. E dentro inhuman ci sta human. Ora, da qui, a distanza di migliaia di chilometri e di poche settimane da Mumbai, è questa la parola che invece mi è rimasta, che mi sono portata dietro: human. Perché poi, da lontano si ricordano i volti, le persone, gli sguardi, umani più che mai, nello loro condizione ugualmente disperata di abitanti dei marciapiedi o di uomini di affari. Perché dentro al disumano, ci sta l'umano e forse è proprio lì in fondo che bisogna andarlo a cercare.

mercoledì 5 settembre 2007

il problema di Ramiza

Al centro nella scuola coloniale una volta alla settimana si fa un gioco. In realta' e' un gioco serio. Si pesca un bigliettino da una scatola e lo si legge. Sopra c'e' scritto un problema che uno dei ragazzi ha scritto durante la settimana, il suo problema, e si discute insieme come risolverlo.
Ovvero, quando uno ha un problema lo scrive su un foglio e lo mette in una scatola. Prima o poi verra' pescato, letto e discusso.
Il problema di questa settimana e': vorrei andare in una certa scuola ma non ho i soldi per iscrivermi. I miei genitori non hanno i soldi ma comunque a loro non interessa che io vada a scuola.
Ed ecco che il problema e' sempre quello: i soldi. Va detto che questo della scuola e' un problema serio: c'e' un proliferare di scuole private per i nuovi ricchi, che chiedono tasse di iscrizione sempre piu' alte. La scuola pubblica invece e' allo sfascio e gli investimenti del governo sono rivolti unicamente a sovvenzionare le scuole private . Ma come fanno i bambini dello slum a pagarsi una scuola privata? Non hanno neanche l'acqua corrente e il bagno.
Per fortuna che per alcuni di loro ci sono associazioni come Akanksha.
Ma come fare con chi ha scritto il bigliettino? I ragazzi suggeriscono di guadagnare un po' di soldi facendo dei lavoretti: andando a prendere l'acqua per chi ne ha bisogno (appunto, l'acqua corrente non c'e'), tenere i bambini di altre famiglie, andare a fare la spesa per altre persone. Tutti i lavori sono dignitosi. Ma basteranno i pochi soldi cosi' guadagnati?, mi chiedo io.

A distanza di giorni capisco poi, o meglio, mi fa capire, che e' Ramiza, la ragazza musulmana mia amica che ha scritto questo biglietto. Le consiglio di parlarne esplicitamente con Anjali, l'insegnante, ma lei non vuole. Mi dice che non le interessa niente altro che studiare seriamente, niente ragazzi o distrazioni, ma i suoi non vogliono che studi, i soldi spesi negli studi sono soldi persi.

Devo frenare il mio spirito umanitario e convincermi che dirle "te la pago io, la scuola", non e' una soluzione. Non e' neanche una soluzione farla venire a studiare in Italia: come corre veloce l'immaginazione...
Primo perche' lei non accetterebbe, secondo perche' causerei tensioni con i suoi, che neanche volevano che fosse nel programma di Akanksha e che quei soldi li spenderebbero volentieri in qualcos'altro. E poi, lei non vuole andare via dalla sua famiglia, nonostante abbia evidenti problemi con i suoi, e' legatissima a loro. E poi, tutti gli altri? Non sarebbero discriminati? Non e' l'unica ad avere grandi sogni: chi vuole fare il medico, chi l'ingegnere, chi l'insegnante.

Che fare? La mia soluzione non e' migliore di quella proposta dai ragazzi con il gioco dei bigliettini: loro conoscono la situazione meglio di me.

Io sono tornata a casa senza aver risolto questo e altri problemi. Loro sono laggiu' che cercano di risolverli, giorno dopo giorno, bigliettino dopo bigliettino.

inhuman

Uno dei programmi dei centri di Akanksha, a parte le lezioni di inglese e matematica, è quello del cosidetto empowerment. Ovvero insegnare ai bambini ad acquistare una consapevolezza della loro condizione, a diventare autonomi e responsabili.
Dentro l'empowerment ci stanno molte cose, portate avanti dai social worker di Akanksha, che girano i vari centri di Mumbai. Più o meno in ogni centro si tiene una sessione di empowerment una volta alla settimana oppure ogni 15 giorni. Si parla di igiene, educazione sessuale, di droga e alcol (problemi diffusi negli slum), di risoluzione dei conflitti, di discriminazioni (di casta, di genere, economica), dell'importanza dell'istruzione, della dignità di ogni tipo di lavoro onesto, ma anche di ricchezza e povertà in questa nuova India neoliberista.
All'interno di questo programma, un giorno all'istituto dei ciechi Ragini fa leggere un brano ai ragazzi che parla dei contrasti dell'India, in cui convivono estrema povertà e ricchezza sfrenata. Ci sono persone che vivono per strada, mangiano (se mangiano) raccogliendo dei rifiuti e accanto ci sono miliardari che vivono nel lusso, danno ricevimenti e cene per migliaia di persone i cui soli avanzi basterebbero per sfamare centinaia di persone al giorno, dice il brano. "Lavish riches and inhuman poverty".
Questa parola mi rimane impressa: ihnuman, disumana. Tornerà fuori durante il mio ultimo giorno a Mumbai, in modo evidente, dirompente, inarrestabile. Non c'è parola migliore forse per definire queste disuguaglianze al limite della crudeltà, questa mancanza di umanità.
Umanità che d'altro canto spesso si legge sulle facce dei più poveri, nel loro essere miti e non ribellarsi, nei loro sguardi pieni di (troppo?) rispetto e compassione. Un tempo la chiamavo rassegnazione, ma ora ho una parola migliore: accettazione. Rassegnazione è un concetto occidentale: significa che si ci è fatti una ragione, che si è cercato di cambiare ma che non se ne è riusciti. Vuol dire che si sa che ciò è sbagliato, ma è così e non c'è niente da fare. Ma per gli indiani non è così. Non è questione di giusto o sbagliato, non si pone il problema. E' così e va accettato.
E' disumana la richezza sperperata dai più ricchi, assolutamente inhuman. Ma anche questa accettazione da parte dei più poveri, io non riesco ad accettarla.