mercoledì 17 novembre 2010

tre anni dopo

Agosto 2010. Torno a Bombay dopo tre anni, dopo tre anni dall'ultimo post di questo blog.
Dopo un sogno non realizzato: avrei dovuto tornare prima e molto più a lungo.
E ne scrivo solo ora, di nuovo ritornata in Italia, dopo tre mesi. Ora che mi sembra di avere qualche cosa da scrivere.

Stesso albergo. Stessi ristoranti in cui mangiare la sera. Stessa trafila incredibile per avere una SIM. Stessa sporcizia e stesso caos. Stessi autobus e treni. Stessa umanità e stessa mancanza di umanità.
Stessa strada per andare a quella che avevo battezzato la "scuola coloniale", dove si tengono le lezioni di uno dei vari centri di Akanksha. Stessa insegnante, Anjali.

L'aula è cambiata, ora sono a pianterreno, all'aperto, accanto al campo di calcio.
I ragazzi sono cambiati, totalmente. Sono cresciuti, ormai sono grandissimi. Passare da 12 a 15 anni significa diventare altre persone. Passare da 14 a 17 diventare adulti.
Ora tutti parlano inglese senza esitazione. Tutti sanno bene che cosa faranno.
Questo è il centro di Akanksha dove vengono i ragazzini più grandi, rispetto ad altri centri. Ragazzini che hanno iniziato il loro percorso anche 10 anni fa.

Di nuovo, racconto di me.
Di nuovo, raccontano di loro.

Loro hanno bisogno di Akanksha, ma non più per molto, ormai sono quasi alla fine del percorso che, da bambini analfabeti cresciuti fra la sporcizia degli slum, li ha portati alla fine del percorso di studi, insegnando non solo inglese o matematica, ma anche una certa consapevolezza.
Alcuni laborano già, altri lo faranno, alcuni si sono addirittura iscritti al college.
Quando loro finiranno, altri bambini più piccoli entreranno al loro posto e dovranno fare tutto questo percorso.
Proprio perché insegnanti e volontari di Akanksha hanno fatto egregiamente il loro lavoro, ormai loro non hanno quasi più bisogno di Akanksha.

Tanto meno non hanno bisogno di me.
Io ho avuto bisogno di loro, io avevo bisogno di loro, disperato bisogno. Ora, finalmente, non ce l'ho più. Continuerò a tornare in India, a tornare a Bombay, a tornare da loro, ogni volta che posso. Continuerò a fare donazioni per Natale, a tenere i contatti con Anjali o con Suparna.

Ma, per fortuna, non ho più bisogno di loro.
Questa volta sì, questa volta, ora sì che possiamo costruire qualcosa.

martedì 11 settembre 2007

human

Il giorno del ritorno, già ricco di suo di emozioni contrastanti e di nostalgia non si sa bene di dove e di cosa, è stato ancora più particolare.
Il volo di ritorno è stato cancellato, non c'era proprio l'aereo. Dopo una attesa estenuante in aeroporto, hanno deciso di metterci in un albergo. Non parlerò del caos e dell'inefficienza indiana nel gestire la situazione, a cui ormai mi sono abituata e in cui non ci vedo niente di male, d'altra parte siamo in India.

Quello che mi ha colpito è invece un'altra cosa, tanto da pensare che la cancellazione del volo fosse un segno. Sono razionalista di natura e in un certo senso stare tanto tempo in India mi ha reso ancora più razionalista, quindi se il volo è cancellato, è perché c'era un problema tecnico e basta. Causa ed effetto. Nessun fine. Ma se, solo per giocare un attimo al gioco dei segni e dei significati, ci volessi trovare un senso a tutti i costi, potrei dire che mi hanno fatto stare un giorno in più perché c'era qualcosa che non avevo ancora visto e che dovevo vedere prima di partire.

La povertà, la degradazione, la sofferenza, le avevo ampiamente viste. Ma il lusso ancora no. L'albergo dove ci hanno messo era un hotel 5 stelle di super-lusso. Vicinissimo all'aeroporto, ovvero anche vicinissimo allo slum (ci sono baracche attaccate alla pista dell'aeroporto, ho letto che una volta c'erano finite anche sopra, e poi sono state rase al suolo...). In effetti per arrivarci si passa in mezzo a strade sui cui lati ci sono decine di baracche accatastate l'una sull'altra. L'albergo è circondato da un muro di cinta e si entra da un cancello difeso da una decina di persone armate.
Dentro, il lusso sfrenato. Quello di quei "lavish riches" di cui leggevamo all'istituto dei ciechi. Una hall enorme, spaventosamente enorme, con fontane rigogliose d'acqua, con pianoforti a coda e scalinate da principessa, su cui si affacciano le porte delle camere, dieci piani di camere di lusso.

Fuori, i soliti 35 gradi con umidità al 100%, dentro, aria condizionata così forte che non mi bastano tutti i vestiti che mi sono portata per coprirmi dal freddo.
Fuori, bambini che si rotolano fra montagne di rifiuti, dentro uomini d'affari che spostano milioni di dollari o euro dal loro portatile. Dentro l'albergo poi c'è un buffet enorme, con ogni tipo di piatto, indiano, occidentale, cinese, pesce, carne, frutta, verdura, gamberoni, minestrone, insalata, curry, dolci. Aperto 24 ore al giorno. E fuori la gente mangia dai rifiuti.

Vado all'ultimo piano per vedere meglio dall'alto. E' difficile vedere sotto, ci sono parapetti ovunque, quasi non ti volessero far vedere fuori. Ma trovo una finestrella di lato e riesco a guardare sotto. Si vede dall'alto la piscina all'aperto nel giardino dell'albergo: gente (qui in piscina soprattutto occidentali) che prende il sole, che fa i tuffi. Al di là del muro, proprio appoggiate al muro stesso, baracche di lamiera e gente sporca, sporchissima, senza acqua corrente, senza acqua potabile, senza bagni e latrine. Ma come fanno? Sia chiaro: intendo come fanno quelli che fanno i tuffi a fare i tuffi.
In linea d'aria solo due, tre metri. Ma gli uni non vedono gli altri: il muro di cinta e le palme molto verdi e tropicali separano i due mondi.

Mi viene da pensare: è "immorale". Questa parola mi perseguita tutto il giorno. "Immorale". Ma poi lentamente mi viene in mente che la morale nostra non è la loro, che la morale non è un qualcosa di universale. Forse non c'è nemmeno il concetto di morale, in India. Immorale per me, che sono cresciuta nel cristianesimo e che, pur non facendone più parte, in qualche modo mi sono nutrita di giusto e sbagliato, morale e immorale, fare del bene al prossimo e fare del male. E allora dicendomi "immorale" sto semplicemente giudicando con il mio metro, con la mia cultura. Però un'altra parola (un altro giudizio) me la concedo, giustificandomi con il fatto che me l'hanno suggerita loro, gli indiani. E' quel "inhuman" che già mi aveva fatto pensare, che mi veniva in mente di notte lungo i marciapiedi, di giorno di fronte a gente senza braccia. E' disumano questo divario. Sì, è disumano.

 
E' con questa parola in mente, e nel cuore, che lascio l'India, quando dall'aeroporto ci trovano un altro aereo, nel cuore della notte.

Ma ogni parola contiene, negandolo, anche il suo opposto. E dentro inhuman ci sta human. Ora, da qui, a distanza di migliaia di chilometri e di poche settimane da Mumbai, è questa la parola che invece mi è rimasta, che mi sono portata dietro: human. Perché poi, da lontano si ricordano i volti, le persone, gli sguardi, umani più che mai, nello loro condizione ugualmente disperata di abitanti dei marciapiedi o di uomini di affari. Perché dentro al disumano, ci sta l'umano e forse è proprio lì in fondo che bisogna andarlo a cercare.

mercoledì 5 settembre 2007

il problema di Ramiza

Al centro nella scuola coloniale una volta alla settimana si fa un gioco. In realta' e' un gioco serio. Si pesca un bigliettino da una scatola e lo si legge. Sopra c'e' scritto un problema che uno dei ragazzi ha scritto durante la settimana, il suo problema, e si discute insieme come risolverlo.
Ovvero, quando uno ha un problema lo scrive su un foglio e lo mette in una scatola. Prima o poi verra' pescato, letto e discusso.
Il problema di questa settimana e': vorrei andare in una certa scuola ma non ho i soldi per iscrivermi. I miei genitori non hanno i soldi ma comunque a loro non interessa che io vada a scuola.
Ed ecco che il problema e' sempre quello: i soldi. Va detto che questo della scuola e' un problema serio: c'e' un proliferare di scuole private per i nuovi ricchi, che chiedono tasse di iscrizione sempre piu' alte. La scuola pubblica invece e' allo sfascio e gli investimenti del governo sono rivolti unicamente a sovvenzionare le scuole private . Ma come fanno i bambini dello slum a pagarsi una scuola privata? Non hanno neanche l'acqua corrente e il bagno.
Per fortuna che per alcuni di loro ci sono associazioni come Akanksha.
Ma come fare con chi ha scritto il bigliettino? I ragazzi suggeriscono di guadagnare un po' di soldi facendo dei lavoretti: andando a prendere l'acqua per chi ne ha bisogno (appunto, l'acqua corrente non c'e'), tenere i bambini di altre famiglie, andare a fare la spesa per altre persone. Tutti i lavori sono dignitosi. Ma basteranno i pochi soldi cosi' guadagnati?, mi chiedo io.

A distanza di giorni capisco poi, o meglio, mi fa capire, che e' Ramiza, la ragazza musulmana mia amica che ha scritto questo biglietto. Le consiglio di parlarne esplicitamente con Anjali, l'insegnante, ma lei non vuole. Mi dice che non le interessa niente altro che studiare seriamente, niente ragazzi o distrazioni, ma i suoi non vogliono che studi, i soldi spesi negli studi sono soldi persi.

Devo frenare il mio spirito umanitario e convincermi che dirle "te la pago io, la scuola", non e' una soluzione. Non e' neanche una soluzione farla venire a studiare in Italia: come corre veloce l'immaginazione...
Primo perche' lei non accetterebbe, secondo perche' causerei tensioni con i suoi, che neanche volevano che fosse nel programma di Akanksha e che quei soldi li spenderebbero volentieri in qualcos'altro. E poi, lei non vuole andare via dalla sua famiglia, nonostante abbia evidenti problemi con i suoi, e' legatissima a loro. E poi, tutti gli altri? Non sarebbero discriminati? Non e' l'unica ad avere grandi sogni: chi vuole fare il medico, chi l'ingegnere, chi l'insegnante.

Che fare? La mia soluzione non e' migliore di quella proposta dai ragazzi con il gioco dei bigliettini: loro conoscono la situazione meglio di me.

Io sono tornata a casa senza aver risolto questo e altri problemi. Loro sono laggiu' che cercano di risolverli, giorno dopo giorno, bigliettino dopo bigliettino.

inhuman

Uno dei programmi dei centri di Akanksha, a parte le lezioni di inglese e matematica, è quello del cosidetto empowerment. Ovvero insegnare ai bambini ad acquistare una consapevolezza della loro condizione, a diventare autonomi e responsabili.
Dentro l'empowerment ci stanno molte cose, portate avanti dai social worker di Akanksha, che girano i vari centri di Mumbai. Più o meno in ogni centro si tiene una sessione di empowerment una volta alla settimana oppure ogni 15 giorni. Si parla di igiene, educazione sessuale, di droga e alcol (problemi diffusi negli slum), di risoluzione dei conflitti, di discriminazioni (di casta, di genere, economica), dell'importanza dell'istruzione, della dignità di ogni tipo di lavoro onesto, ma anche di ricchezza e povertà in questa nuova India neoliberista.
All'interno di questo programma, un giorno all'istituto dei ciechi Ragini fa leggere un brano ai ragazzi che parla dei contrasti dell'India, in cui convivono estrema povertà e ricchezza sfrenata. Ci sono persone che vivono per strada, mangiano (se mangiano) raccogliendo dei rifiuti e accanto ci sono miliardari che vivono nel lusso, danno ricevimenti e cene per migliaia di persone i cui soli avanzi basterebbero per sfamare centinaia di persone al giorno, dice il brano. "Lavish riches and inhuman poverty".
Questa parola mi rimane impressa: ihnuman, disumana. Tornerà fuori durante il mio ultimo giorno a Mumbai, in modo evidente, dirompente, inarrestabile. Non c'è parola migliore forse per definire queste disuguaglianze al limite della crudeltà, questa mancanza di umanità.
Umanità che d'altro canto spesso si legge sulle facce dei più poveri, nel loro essere miti e non ribellarsi, nei loro sguardi pieni di (troppo?) rispetto e compassione. Un tempo la chiamavo rassegnazione, ma ora ho una parola migliore: accettazione. Rassegnazione è un concetto occidentale: significa che si ci è fatti una ragione, che si è cercato di cambiare ma che non se ne è riusciti. Vuol dire che si sa che ciò è sbagliato, ma è così e non c'è niente da fare. Ma per gli indiani non è così. Non è questione di giusto o sbagliato, non si pone il problema. E' così e va accettato.
E' disumana la richezza sperperata dai più ricchi, assolutamente inhuman. Ma anche questa accettazione da parte dei più poveri, io non riesco ad accettarla.

giovedì 30 agosto 2007

bramino comunista


Uno degli ultimi giorni passati in Kerala, Prem mi porta a visitare il massimo poeta vivente in lingua malayalam. Ha 82 anni e vive vicino a casa sua.
Nella sua vita ha scritto lunghi poemi in versi, ma non è molto conosciuto al di fuori del Kerala.
Con noi viene un amico di Prem. All'inizio sono un po' imbarazzata, in quanto non so bene chi è, cosa ha scritto, cosa scrive, cosa ha fatto e lui non parla benissimo inglese, non sempre ci capiamo.
Dopo un po' però il ghiaccio si scioglie e inizia a raccontare della sua militanza ai tempi di Gandhi durante la lotta per l'indipendenza, proprio le storie che piacciono a me. Racconta che ha lasciato gli studi per unirsi al movimento e che poi, dopo l'indipendenza, ha militato al partito comunista, partito molto forte in Kerala e ancora oggi al governo in questo stato. Si definisce a metà strada fra Gandhi, per l'aspetto spirituale, e i comunisti, per gli aspetti di uguaglianza e giustizia sociale. Un gandhiano comunista. Non ci vedo niente di strano, anzi è una figura che può solo essermi che simpatica.
Ciò che a me sembra strano è invece un'altra cosa: è un bramino. Bramini si nasce, e qui c'è poco da fare. Ma lui non è solo nato bramino, continua a comportarsi da bramino: indossa il cordino che sancisce la sua casta, accetta con naturalezza l'inchino ai suoi piedi dell'amico di Prem, che arriva fino a toccargli i piedi con la testa.
I bramini hanno il massimo dei privilegi delle caste, sono al di sopra di tutti. Come può un comunista accettare le caste, indossarne i simboli, accettare gli inchini che gli sono dovuti in virtù della sua posizione di superiorità?
Il comunismo è degenerato in molti paesi e ha spesso fatto il contrario di quello che ha detto. Coloro che si professavano comunisti spesso abusavano dei loro privilegi. Quindi non c'è niente di strano, tutto il mondo è paese.
Però, non c'è niente da fare, nonostante la forte simpatia che questo anziano scrittore mi ispira, un bramino comunista non l'avevo mai sentito. E non posso fare a meno di pensare che qualcosa di strano ci sia. Mentre per loro è perfettaemnte normale.

cinema


Il cinema è una parte essenziale della vita indiana.
Una delle domande più frequenti che mi fanno i ragazzi è quali film indiani ho visto. Intendono film hindi, di Bolliwood. E non a caso Mumbai è la capitale del cinema hindi in India.
Anche Akanksha organizza delle uscite al cinema. Raramente, ma ogni tanto un po' di svago ci vuole.
I ragazzi mi fanno una lista dei film che devo vedere. In pratica ho visto solo Monsoon wedding (considerato non veramente indiano in quanto prodotto da esportazione) e Lagaan (piu' accettato come indiano).
Di alcuni film che mi hanno consigliato i ragazzi ho comprato i DVD in una libreria, ma devo ancora vederli.
Poi una sera in Kerala andiamo al cinema a vedere un film in malayalam (la lingua del Kerala). Oltre alla produzione in hindi c'e' una vasta produzione in tutte le lingue degli stati dell'India. Ma prima di tutto parliamo del cinema: sembra un magazzino abbandonato. Da noi potrebbe essere la sede di un centro sociale occupato. Sul soffitto girano molteplici ventilatori. Sono quasi tutti uomini, se ci sono delle donne sono con i mariti e i figli, non da sole e non fra donne.
Il film si chiama Surya (sole), nome del protagonista. Ci dicono che rispetto alla media questo è un film di serie C. Ma mi aspettavo molto peggio. Mi aspettavo balletti e canzoni a non finire. Invece c'e' una trama anche abbastanza complicata (un po' improbabile, ma ci sta), parecchie azioni violente in cui Surya picchia e ammazza tutti. I pochi balletti sono anche piacevoli. Ovviamente niente baci o effusioni amorose. Grazie alla traduzione di Bindu, la moglie di Prem, riesco anche a seguire abbastanza.

Si nota una cosa: il loro standard di bellezza, soprattutto maschile. Il protagonista eroe è un tipo tarchiato, con i baffoni neri spessi, capelli neri e volto non troppo fine. Per noi un mostro... per loro un gran figo...
E poi i valori del film: vendetta (il perdono non si concede mai) e famiglia (la famiglia non si tocca).

Certo non e' il miglior film che abbia mai visto, ma sicuramente e' stata un'esperienza anche questa...

mercoledì 29 agosto 2007

mani

Premessa: questo post è macabro e raccapricciante. Ne sconsiglio sinceramente la lettura alle persone impressionabili. Ho delle immagini in mente che mi hanno perseguitato per tutto il tempo, non ne ho parlato prima per non enfatizzarle, preferendo parlare dei momenti di speranza. Ma ora è venuto il momento di tirarle fuori. Chissà che raccontandole riesca a liberarmene...

Queste immagini riguardano delle mani.
Prima immagine, che viene da una lettura di un articolo di giornale fatta con i ragazzi del centro nella scuola coloniale. Un uomo senza una mano, la destra, E sdraiato. Al posto della mano una fasciatura approssimativa di bende e garze insanguinate. Volto sofferente ma felice. L'articolo riporta la storia di quest'uomo, un devoto fedele di una qualche dea (ho dimenticato quale) al limite del fanatismo. Anzi, ben oltre il fanatismo: per offrire un dono alla dea ha pensato bene di tagliarsi una mano con un'ascia e di darla in sacrificio alla dea. Gesto supremo di devozione e annullamento, secondo lui. Gesto di follia, secondo noi (e qui il noi, non è "noi occidentali", come uso spesso, ma "noi, bambini, volontari e insegnanti di Akanksha che leggiamo l'articolo").

Altra immagine. Un uomo che mi chiede l'elemosina, alla stazione, mentre sto aspettando il treno. In una mano ha un bicchierino per i soldi, l'altra la tiene accanto al bicchierino e in pratica non parte dal polso, ma da meta' del braccio. Cioe' ha un braccio piu' corto, ma non e' questo, e' che la mano penzola, perche' non c'e' l'osso, dentro. Ed e' piena di bolle. La tiene bene in vista accanto al bicchierino dell'elemosina: è per lei che chiede i soldi.

Terza immagine: alla televisione una sera ripetono ossessivamente lo stesso filmato di denuncia nei confronti della polizia. Si vede un uomo con le braccia alzate e una delle due mani totalmente maciullata e sanguinante, come se gli fosse esplosa una bomba in mano. Poi la polizia gli spara addosso. E' una testimonianza e accusa della brutalità nella polizia, capace di sparare a un uomo disarmanto e con le mani (la mano) alzate. Non capisco cosa sia successo perché parlano in hindi, ma questa immagine dell'uomo a braccia alzate con una mano distrutta viene ripetuta in continuazione.

Tutte queste mani mancanti o martoriate mi impressionano e mi perseguitano. E
da allora ho iniziato a guardare le mani della gente di Mumbai. Ci sono mani tutte ben curate, ingioellate, inanellate. Alcune con i disegni con l'hennè, alcune con lo smalto sulle unghie. Altre invece sono l'opposto: dita mancanti, mani piene di piaghe, mani che sono diventate delle palle con delle protuberanze come dita. Un bambino di Akanksha ha 6 dita, due pollici. Ci sono persone invece a cui una mano manca del tutto: si vedono abbastanza spesso persone senza un braccio, soprattutto uomini anziani.

Non avevo mai pensato alla fortuna di avere due mani. Mentre scrivo alla tastiera mi tocco le dita una con l'altra, ci sono tutte, battono i tasti veloci, sicure, sane.

lunedì 27 agosto 2007

60 anni

Il 15 agosto è l'anniversario dell'indipendenza dell'India.
Era il 15 agosto 1947 quando fu proclamata la nazione indiana e gli inglesi lasciarono il subcontinente. Quindi sono 60 anni, numero tondo. E' un'occasione per riflettere su dove sia arrivata l'India oggi, che cosa ha conquistato e cosa invece c'è ancora da fare. All'istituto dei ciechi c'è stato un programma di preparazione al giorno dell'indipendenza, che è partito mesi prima del mio arrivo. Ogni settimana i bambini hanno studiato uno stato dell'India (un po' come noi studiavamo le regioni italiane alle elementari) mettendo in rilievo gli aspetti positivi.
Poi molte lezioni sulla "freedom fight" contro gli inglesi, contro le ingiustizie che gli inglesi attuavano in India. Alla fine, fra bandierine indiane sventolanti, i bambini cantano l'inno indiano.
Non è nazionalismo, almeno non mi è sembrato. La mia impressione è opposta. Questo continuo ripetere che bisogna essere orgogliosi di essere indiani (proud to be Indian) nasconde secondo me un senso di inferiorità che ancora vive fra gli indiani. Prem mi ha confessato che la prima volta che ci doveva ospitare in India, 4 anni fa, era nervosissimo per paura di non essere all'altezza nei confronti di stranieri, sicuramente migliori di lui in quanto stranieri.
E poi viene ripetuto troppo spesso, "proud to be Indian". Uno che è così proud non ha bisogno di ricordarlo ogni 5 minuti.
Ma è giusto che si faccia. Ed è giusta questa riflessione: cosa abbiamo fatto in questi 60 anni? Sui giornali c'è un po' di tutto: dalla "democrazia più grande del mondo" alla bomba atomica, dalle rivolte delle popolazioni tribali alla scommessa dell'industria del software, dalla mancanza di acqua potabile all'apertura di fabbriche della Coca cola. In effetti in India c'è tutto questo.
Forse loro non sono consapevoli di tutto questo, i bambini che cantano stonati l'inno indiano, con la maglietta di Akanksha (la loro divisa) con scritto "Be the change" (la famosa frase di Gandhi: be the change you wish to see in the world). O forse lo sono ben più di me, pur non sapendo contare e vivendo ai margini della società. Ed è a loro che bisognerebbe dedicare questa giornata, è a loro che l'India della bomba atomica dovrebbe pensare.

gerarchie

Se i primi giorni mi sembrava che i bambini di Akanksha fossero gli ultimi della terra, pian piano ho capito che loro sono gia' fortunati. Sicuramente sono fortunati per il fatto che sono stati inseriti nel programma di scolarizzazione e che, anche se alla sera tornano allo squallore dello slum, di giorno stanno in strutture dignitose e sono seguiti da persone che tengono a loro. Hanno la speranza. Il che e' sicuramente una testimonianza che quello che fanno le insegnanti e i volontari di Akaknsha funziona.
Ma ci sono anche altre realta'. E c'e' tutta una gerarchia di disperati: anche fra i poveri c'e' chi sta meglio e chi sta peggio. Nello slum ci sono vari tipi di baracche, che corrispondono a una gerarchia di ricchezza e poverta'. I piu' fortunati hanno una catapecchia di cemento, magari con i tetto di lamiera, ma per lo meno e' qualcosa di solido. Poi c'e' chi ha la lamiera in tutto e per tutto. E ci sono anche vari tipi di lamiere, piu' nuove o piu' arrugginite, in un unico pezzo o in piu' pezzi. Dopo la lamiera c'e' il telo. Anche qui, con una gerarchia di teli: piu' o meno impermeabile, piu' o meno sollevato da terra, piu' o meno grande. Sotto il telo poi, c'e' chi ha di piu' e chi ha di meno, chi ha il fornelletto per cucinare e chi no. C'e' poi chi per tetto ha solo i ponti. Un uomo vicino al mio albergo vive sotto un ponte, ha portato li' un divano e si e' fatto un salotto all'aperto.
E poi c'e' chi dorme sotto i ponti, ma non ha niente.
Confronto a questi anche i bambini di Akanksha sono fortunati. E "noi", allora?

sabato 25 agosto 2007

giorno e notte, uomini e cani

Mumbai cambia aspetto dal giorno alla notte. Proprio la Mumbai coloniale, non dico quella degli slum, dove di notte e' meglio non entrare.
Ci sono zone che di giorno sembrano tranquille, non eccessivamente povere. Ma a ripassarci di notte tutto cambia.
I marciapiedi sono particolari. Di giorno ci sono venditori ambulanti, "stalls" che vendono ogni tipo di cibo, gente indaffarata che cammina velocemente per prendere il treno. Di notte tutte queste cose scompaiono e i marciapiedi diventano dei dormitori. Soprattutto quelli coperti, sotto i portici, sotto strade sopraelevate, sotto i ponti: in tempo di monsone e' meglio essere coperti.
Ci sono centinaia di persone sdraiate una di fianco all'altra, che dormono direttamente sull'asfalto, oppure su qualche foglio di giornale. Alcuni hanno degli stracci su cui riposare. Le mamme abbracciano i bambini, alcuni piccolissimi, di alcuni mesi. Molti dormono abbracciati, eppure non c'e' bisogno di riscaldarsi, si muore dal caldo anche di notte. Queste persone poi di giorno scompaiono. Molte non possegono niente di piu' che un fagottino con quattro stracci dentro. Non hanno neanche una baracca di lamiera nello slum.
So che anche da noi ci sono persone che dormono per strada. Ma quello che qui fa impressione e' la quantita': interi marciapiedi occupati, una fila di cui non si vede la fine.
Alcuni dormono fra le macchine parcheggiate. Ho visto dei topi enormi aggirarsi fra i dormienti. E c'e' pieno di cani. Cani spelacchiati, magri, cencioci. Anche i cani si sdraiano come gli uomini e dormono li', accanto a loro, in cerca di compagnia. Sembra proprio che sia cosi': sono i cani che si sdraiano come uomini e non viceversa, in questo ordine inverso di umanita' abbandonata.
D'altra parte, fino a poco tempo fa, i cani potevano entrare nei templi indu' e gli intoccabili no.
Ho visto un ragazzo che dormiva sul marciapiede che va dalla stazione verso il mio albergo. Accanto una madre abbracciava una bambina, due ragazzi dormivano appaiati. Un padre abbracciava un ragazzino. Lui, forse non avendo nessun altro, abbracciava un cane.